Maternity blues
Qualche giorno fa sono stata al
cinema con un’amica per vedere il film Maternity Blues. Oggi, a distanza di
tante ore dalla visione, sono ancora oppressa dai sentimenti trasmessi
dall’opera.
Infanticidio.
Una madre che uccide il proprio
figlio: quale disperazione, quale sconfinata solitudine, quale tormento
spirituale, quale prigione interiore invadono la donna che uccide, distrugge,
soffoca, fa scomparire, allontana per sempre, nega, annega, elimina il figlio? Il
proprio figlio, la propria creatura, una parte di sé. Mi pare lecito
considerare questi atti al pari di un suicidio. La donna elimina una parte di
sé e, presa coscienza di ciò, desidera spesso completare ciò che ha iniziato, desidera
morire. Sento compassione per queste donne abbandonate in un purgatorio che
assomiglia all’inferno, tanto da chiedermi senza cinismo e senza ipocrisia, se
dovesse essere data loro la possibilità di farlo, di mettere fine alla propria
sofferenza, invece che vivere con la insostenibile consapevolezza di ciò che
hanno fatto.
Vedendo questo film mi sono sentita
scoperta, come se qualcuno avesse
aperto una porta del mio essere per mostrami le mie ombre. Dico grazie alla
scrittrice del testo da cui è tratto il film, Grazia Verasani, al regista,
Fabrizio Cattani, agli ideatori di quest’opera, perché mi hanno ridato
completezza. Dentro di me ci sono le ombre, c’è la zona oscura: un grande
serbatoio di sentimenti, visioni, pensieri: energie e pulsioni inespresse, che
pure mi alimentano, fanno di me ciò che sono. Questa storia mi ha donato un po’
di integrità, il racconto è stato capace di farmi comprendere, cioè tenere dentro
insieme, l’amore e la morte, il desiderio di vivere e quello di morire, il
desiderio di dare vita e quello di distruggere. È una tragedia infatti quella
portata sullo schermo da Maternity Blues. L’incontro di istanze tanto antiche
quanto profonde. Il sé, che nell’incontro con l’altro diventa generativo di una
sintesi espressione dei primi due. Una sintesi, i figli intendo, che se non
viene riconosciuta e presa in carico da entrambe, rischia di schiacciare la
madre, le succhia la linfa vitale, le impedisce il reiterare dell’incontro con
l’altro, con l’uomo. In questa dinamica il
figlio si fa ostacolo che deve essere eliminato per ritrovare i propri
confini, il proprio sé, per poter di nuovo incontrarsi con l’uomo. Non credo
che le storie che mi sono state narrate ieri sera, siano espressione di
mancanza di amore o istinto materno. Piuttosto ho visto lo sgomento delle donne
di fronte a sentimenti così potenti, così violentemente contrastanti, da dover
essere rifiutati. Ho visto gli uomini, i padri, come nuovi argonauti accecati
da feticci intramontabili: carriera, sesso, immaturità, egoismo.
E poi ho pensato alle “mie mamme”,
cioè alle donne in gravidanza o coi figli appena nati che seguono le attività
che propongo come doula. Ho pensato a quanto spesso si sentono inadeguate, a quanto
pretendano da se stesse, quando invece sono proprio giuste, brave, umane. E ho
pensato ai loro compagni, imperfetti e a volte egoisti. E ho avuto voglia di
abbracciarle tutte, insieme ai loro compagni.
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